La Dinamica Mentale come supporto nel trattamento del mal di testa

Sono stata per molti anni coordinatrice di un gruppo di Accademia Europea nel Centro di Trieste e ho avuto l’opportunità di seguire numerose persone che hanno intrapreso un percorso di sviluppo personale dopo aver frequentato il corso di Dinamica Mentale.

Fin dall’inizio di questa mia attività ho notato una particolare concentrazione nel mio gruppo di donne con problemi di mal di testa. Arrivavano al corso di DMB dopo aver provato di tutto per risolvere questo loro disturbo.

In alcuni casi venivano seguite dal Centro Cefalee, ma senza ricevere benefici apprezzabili: i loro mal di testa si ripresentavano comunque, ciclicamente, con durata e intensità variabile e in alcuni casi erano davvero frequenti e invalidanti. Alcune di loro erano intossicate dai farmaci che erano costrette ad assumere da tanti anni.

Era curioso notare come in tutte queste donne vi erano alcuni tratti che le accomunavano e che le avvicinavano a me.

Prendevano il corso di DMB molto seriamente, come del resto molte altre cose nella loro vita, e si impegnavano fin dall’inizio a fare regolarmente ogni giorno le tecniche consigliate loro dall’istruttore, motivate dall’obiettivo di eliminare il loro disturbo.

L’impegno era un loro punto di forza, e già fare con regolarità il rilassamento totale migliorava da subito la qualità del loro sonno, consentiva loro di scaricare le tensioni accumulate durante la giornata e contribuiva a ridurre progressivamente frequenza e intensità dei loro attacchi di mal di testa.

Nel giro di un paio di mesi, unendo al rilassamento totale la tecnica specifica per il mal di testa, tutte avevano avuto notevoli miglioramenti: l’intervallo tra un mal di testa e l’altro si allungava sempre più, gli episodi erano comunque gestibili con successo e pian piano nel tempo sparivano.

Erano comprensibilmente felici di questo risultato, ma per fortuna non si erano accontentate e avevano continuato a lavorare su se stesse.

Gli aspetti da migliorare

Ho avuto l’opportunità di seguirle in questo loro percorso di sviluppo personale e di trovare in loro tanti aspetti di me sui quali avevo lavorato in passato o dovevo ancora lavorare.

Erano riuscite ad ottenere un risultato positivo strabiliante sul lato fisico, in un tempo relativamente breve e in generale la loro aspettativa era quella di ottenere un analogo risultato positivo – in breve tempo – anche in altri settori della loro vita che non andavano bene come avrebbero voluto.

Ma in questo caso di tempo ne serviva di più.

L’obiettivo però era ambizioso: consolidare lo stato di benessere fisico (niente più mal di testa), riconoscere e modificare quegli atteggiamenti mentali che lo sottendevano, che lo alimentavano, che riducevano l’energia positiva, la vitalità, la gioia di vivere, che condizionavano i rapporti interpersonali, che limitavano le aspirazioni e la creatività.

Una costante che ho trovato in loro era un forte senso di responsabilità, una specie di “investitura” percepita e spesso auto-imposta che le obbligava ad essere “brave bambine” da piccole, scolare giudiziose, lavoratrici indefesse, madri sempre a disposizione.

Persone sulle quali contare, di cui fidarsi, e i colleghi e i familiari in effetti si fidavano e lasciavano che il lavoro lo facessero loro, sempre così brave…

Diventavano spesso un riferimento di fatto, anche se non ufficialmente, e capitava che si trovassero impegnate in situazioni che richiedevano loro troppa energia per essere tenute sotto controllo. Il tema del controllo era in effetti ricorrente.

Ho notato che queste donne si trovavano spesso a convivere con una forte sub personalità che dirigeva e dominava tutte le altre: il giudice severo. Tendevano a vivere la loro vita costantemente in ansia, preoccupate che le cose non andassero come previsto. E se la vita prendeva una strada diversa, come spesso accade, provavano un forte senso di frustrazione, un senso di colpa, a volte rabbia contro se stesse perché non avevano fatto abbastanza.

Erano persone che usavano molto il loro lato mentale: pensavano molto prima di fare, spesso troppo, investendo una grande energia mentale anche quando ne sarebbe bastata molta meno. Per loro “provare a fare e vedere cosa succede” suonava quasi come un’eresia.

Tendevano a provare forti emozioni negative, ma anche a “coprirle” o a sottovalutarle, non dandosi il permesso di sentirle appieno, di accoglierle e di esprimerle nel giusto modo. Forse anche per questo in genere facevano molta fatica a dire di no.

Il tema dell’abbandono e del senso di solitudine emergeva in loro soprattutto quando erano molto stanche e stressate. In quei momenti non si sentivano amate e, paradossalmente, in alcune di loro scattava una molla che le faceva lavorare di più, darsi da fare ancora di più, nonostante la stanchezza e l’evidente bisogno di fermarsi e riposare.

Ho notato in loro una comune tendenza a vivere la vita in bianco o nero: o tutto bene o tutto male, niente sfumature. Un’altra tendenza comune era quella di dirsi “devo tener duro ancora un po’” e scoprire che proprio in quei momenti arrivavano nuove complicazioni, situazioni che richiedevano loro ancora più energia, o malattie o guai in famiglia. Come se la vita dicesse loro “ehi, non è questa la strada giusta!”.

I punti di forza

Ma queste splendide donne – davvero lo sono e provo una grandissima ammirazione per loro – di forze e qualità positive ne avevano messe in campo davvero tante!

In generale erano tutte persone sensibili -alcune persino sensitive– e questa loro caratteristica distintiva consentiva loro di creare legami profondi e appaganti con gli altri.

Erano tutte persone molto motivate. Volevano star bene e lo volevano intensamente. Erano disponibili a “pagare un prezzo” per questo e avevano una grande fiducia nel metodo di Dinamica Mentale.

In effetti la fiducia è stata un importantissimo ingrediente per realizzare la loro ricetta. Però, mantenere alta la fiducia non è stato per loro un gioco da ragazzi: non è stato così, e non lo è stato soprattutto dopo i primi mesi, quando si è trattato di lavorare sulla propria autoimmagine, sul cambiare l’atteggiamento mentale negativo, sull’imparare a “lasciar andare”.

Ricordo alcune lunghe telefonate che iniziavano con un profondo scoraggiamento e finivano con una rinnovata voglia di riprovarci. Cosa le aveva aiutate di più in quei momenti critici, quando si chiedevano se valesse la pena di continuare o non fosse meglio accontentarsi e chiuderla lì?

Ho fatto a tutte questa domanda e la risposta che ho ricevuto, anche se con parole diverse, è stata la stessa: la fiducia che percepivano dal gruppo, il sentirsi seguite, il non sentirsi più sole. Il loro obiettivo era un obiettivo condiviso e non c’erano dubbi sul fatto che ce la potessero fare. Questo era stato per loro un ingrediente molto importante.

Pur con percorsi personali diversi, dopo aver sperimentato la potenza del rilassamento e della mente direttiva sul mal di testa, tutte si erano rese conto di avere un compito non facile, ma necessario che le attendeva: capire cosa significava veramente “ama te stessa” e l’importanza di adottare un sano egoismo.

E così, pian piano, si concedevano più spesso il “lusso di sbagliare”, magari ridendoci sopra. Alcune di loro facevano spazio ad una persona diversa che dava più dignità a quello che provava e desiderava, infischiandosene del giudizio degli altri.

Altre si allenavano a riconoscere le proprie emozioni poco utili (ansia, preoccupazione, paura) e a “riavvolgere il film” – come mi disse una di loro – immaginando di vedere la situazione dall’alto, come quella autoimmagine saggia, calma e serena che compariva regolarmente nei rilassamenti.

Altre ancora, iniziavano a prendersi il proprio tempo per rallentare e riposarsi, se necessario, anche in mezzo all’agitazione collettiva.

Pian piano qualcuna iniziava a riconoscere i legami non utili, a volte malati, e trovava il coraggio e il modo per interromperli. Un’altra affrontava la malattia con un atteggiamento completamente diverso dal passato: “mi sono resa conto che si può essere felici anche quando si è malati!” mi disse “prima la malattia per me era un’ossessione”.

E c’era anche quella che, dopo aver riconosciuto e accettato che il suo mal di testa era un modo per sfuggire alle responsabilità della vita, si era finalmente lasciata andare e in breve tempo aveva trovato un compagno e avuto da lui un bellissimo bambino: “sono rinata” – è stato il suo commento finale – “ l’Universo ha iniziato a darmi una mano, le situazioni si appianavano, le soluzioni mi arrivavano senza fatica”.

Ripensando a questi percorsi di sviluppo personale, c’era un passaggio fondamentale che tutte queste donne avevano fatto, prima ancora di amare se stesse e di adottare un atteggiamento di sano egoismo: si erano rese conto di essere responsabili della loro vita.

Le ingiustizie avvengono perché non facciamo nulla per impedirle, ci ammaliamo perché non ci curiamo della nostra salute, siamo soli perché temiamo il contatto con gli altri, le disavventure ci perseguitano perché vediamo solo ciò che è negativo, le prepotenze ci opprimono perché ce le aspettiamo; e così via. E allora capiamo: gli eventi sfavorevoli sono in gran parte causati e fomentati dai nostri atteggiamenti, le forze avverse che ci stritolano sono le nostre stesse forze, che ora possiamo recuperare. Siamo noi i responsabili della nostra vita.

Piero Ferrucci

Il coraggio di incontrare i nostri limiti e saper vivere con leggerezza le nostre carenze era un tema caldo in particolare per chi aveva sofferto di mal di testa. C’era tanta voglia tra loro di scrollarsi i pesi di dosso, di lasciar andare, di leggerezza.

Fra tutti gli organi, la testa è quello che reagisce più rapidamente attraverso il dolore. Il suo dolore mostra che il nostro pensiero è sbagliato, che impostiamo i nostri ragionamenti in modo sbagliato, che perseguiamo mete discutibili. Fa capire che ci rompiamo la testa con complicazioni inutili cercando sicurezze che non esistono… La tensione si risolve unicamente con la distensione, ma si tratta soltanto di un altro modo di dire “cedere”. Quando la testa dà l’allarme attraverso il mal di testa è tempo di abbandonare il paraocchi dell’”Io voglio”, dell’orgoglio che induce a guardare sempre verso l’alto, della testardaggine e dell’ostinazione. È tempo di rivolgere lo sguardo verso il basso e di considerare le proprie radici.

Thorwald Dethlefsen, Rudiger Dahlke, Malattia e destino

A queste donne era stato utile lavorare sulla leggerezza, sul lasciar andare, sul recuperare la capacità di desiderare e di rendere concreti questi loro desideri attraverso le azioni.

Azioni che portano al cambiamento. Meno pensieri e più cuore.

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